giovedì 17 febbraio 2011

meno male che Seymour c'è - la traduzione

A grande richiesta, ecco la traduzione della citazione di Seymour Hersh del post precedente:

"Quello che mi colpisce è questo: ciò che noi pensiamo e possiamo fare potrebbe non essere più rilevante, ormai. Siamo molto meno importanti ora. Potrebbe semplicemente non avere più importanza. Washington può star qui a discutere con gli israeliani riguardo i Fratelli Musulmani... Ci sono cose che stanno accadendo ora su cui noi abbiamo davvero poco controllo, la qual cosa...è probabilmente un bene!"

Interessante notare come, oltre alle riflessioni politiche che si possono fare sui vari interventi americani negli affari di altri stati, concentrandosi sull'ultima frase sia possibile ricavare un insegnamento filosofico su come affrontare gli avvenimenti della nostra vita. E per questo, oltre a Hersh, devo ringraziare Alessandro. Come al solito, buon maestro di vita: io mi ero limitato al dito, ma tu hai guardato oltre!

mercoledì 9 febbraio 2011

meno male che Seymour c'è


Seymour Hersh (premio Pulitzer nel 1970), intervistato in una puntata di Empire, riguardo l'attuale situazione egiziana e la possibile reazione americana:

"What strikes me is: what we think and do may not be relevant anymore. We're much less relevant now. It just may not matter. Washington can sit there and worry with the Israelis about the Brotherhood... There are things happening about which we have very little control, which...which is probably good!"

Grande come sempre!

martedì 8 febbraio 2011

democrazia d'Egitto - parte seconda

Dopo qualche ora dal post scritto nel pomeriggio, mi è stato suggerito questo ottimo dibattito su Al Jazeera proprio sulle stesse tematiche. Tariq Ramadan, studioso del mondo musulmano, e Slavoj Zizek, filosofo, discutono del punto di vista occidentale verso la rivoluzione egiziana delle ultime settimane. Tanti spunti interessanti e tanto ottimo giornalismo: invidiabile la chiarezza di Ramadan e insuperabile Zizek tra "stupid UNESCO multicultural respect" e geniali metafore disneyane. Da vedere. 
Grazie Ele!

lunedì 7 febbraio 2011

democrazia d'Egitto


Ho letto un "opinione" dello storico Paul Kennedy sull'ultimo Internazionale riguardo Davos e le proteste al Cairo, e sono rimasto piuttosto sconcertato. Ho sempre apprezzato gli articoli di Kennedy, come tutti gli storici riesce a mettere bene le vicende in prospettiva e a dare una buona panoramica internazionale agli eventi di cui parla. Essendo poi appassionato di politica internazionale, quando trovo un suo editoriale sono sempre contento e lo leggo con avido interesse.

Come ovvio, l'ultimo Internazionale ha una bella sezione dedicata alle proteste in Egitto, con diversi commenti ed opinioni, dal mondo arabo e non, tra cui quella di Kennedy. Difficile ribattere a queste sue considerazioni: "Gli studiosi ammonivano da anni che politicamente tutto il Nordafrica era una polveriera. Qualcuno li ha ascoltati? [...] Da almeno quindici anni Washington sembra aver perso di vista il fatto che la pace e la stabilità dell'Egitto e dei paesi vicini sono infinitamente più importanti di quello che può succedere in Afghanistan e perfino in Iraq. Il Cairo è la capitale di uno dei paesi cardine del mondo, Kabul no."

Le affermazioni dei paragrafi successivi, però, hanno cominciato a farmi storcere il naso. Kennedy infatti continua così: "Gli idealisti e i difensori dei diritti umani del nord del mondo ci inviteranno a rallegrarci per la fine dei regimi autoritari e per l'avvento della democrazia dal basso in alcuni paesi arabi. Ma se "democrazia" nel mondo arabo significa semplicemente la vecchia e insufficiente formula "un uomo, un voto" (molto probabilmente in certi paesi le donne non otterranno il diritto di voto), il Mediterraneo e il Medio Oriente sono davvero messi male.
    A quanto ci dicono inviati e corrispondenti, in paesi come lo Yemen, l'Egitto e la Tunisia l'"uomo della strada" è visceralmente antiamericano e antiebraico. [...]
    Forse le rivolte egiziane non faranno la stessa triste fine che a suo tempo portò l'Iran dal regime intollerante dello scià a quello degli ayatollah, ma certo non c'è da scommettere sul progresso pacifico del Nordafrica e del Mondo Arabo.
    Il nostro è un mondo complicato e disorientante, e tentare d'indovinare da che parte stia andando è molto difficile."

Insomma, visto che non possiamo sapere con certezza cosa succederà in Egitto, era meglio avere Mubarak ancora al potere, come è meglio che Gheddafi rimanga a governare in Libia e che gli altri presidenti a vita del Mondo Arabo rimangano dove stanno. Perché invece non rallegrarsi sinceramente che le proteste tunisine ed egiziane siano state sociali, non legate né a partiti politici né a movimenti religiosi? Perché non pensare che una vera svolta democratica sia possibile? Ho già letto e sentito altre volte di certe opinioni secondo cui gli arabi o gli africani non siano "pronti" per la democrazia. In quale modo ci si prepara? Con trent'anni di un governo che non è certamente tra i più autoritari della regione, ma che comunque tiene per sé la maggioranza dei guadagni derivati dallo sviluppo dell'ultimo decennio, senza fare investimenti e senza migliorare la condizione delle classi più disagiate?

A me sembra che si voglia solo difendere uno status quo che faceva comunque comodo. Le rivolte iraniane all'inizio erano anch'esse guidate da motivi sociali e non religiosi, ma poi le guide religiose (comunque molto più potenti e sviluppate di quelle egiziane) sfruttarono l'incertezza dei mesi seguenti per prendere il sopravvento. E poi credo sia cosa risaputa che non c'è nulla di meglio per combattere il fondamentalismo che lo sviluppo sociale. Proprio per questo anche ai Fratelli Musulmani faceva comodo il regime di Mubarak. Da un articolo dello Spiegel: "Secondo i loro avversari, i Fratelli Musulmani vogliono sfruttare gli strumenti democratici per conquistare il potere una volta per tutte. Ma Hala Mustafa, una nota analista politica egiziana, non è d'accordo: "I Fratelli Musulmani sono utili al regime di Mubarak. Rappresentano una precisa immagine del nemico, fornendo un'ottima scusa al governo per potenziare l'apparato di sicurezza". Anche secondo il sociologo della Cairo university Hassan Nafaa c'è un rapporto simbiotico tra il regime laico e gli oppositori islamisti: "I Fratelli Musulmani sanno che al loro movimento fanno comodo lo status quo e il malcontento sociale. Anzi, è proprio questo che gli garantisce un numero sempre maggiore di sostenitori."
    Questo potrebbe spiegare perché gli islamisti ci hanno messo così tanto a reagire alle proteste e perché, in fin dei conti, hanno esitato prima di annunciare la loro partecipazione. "Una protesta che non sei in grado di controllare può facilmente prendere un'altra strada, una direzione realmente democratica", dice Mustafa."

E' quest'ultima ipotesi quella che avrei voluto sentire da Kennedy, non come certo risultato delle proteste, ma come evento comunque possibile e motivo sano di rivolta. Invece no, ci si preoccupa dell'antiamericanismo delle popolazioni mediorientali, come se fosse una malattia generalizzata senza un'origine chiara, quando invece non mi sembra difficile collegare i puntini e pensare che è difficile farsi amiche quelle popolazioni se si supportano i regimi che le opprimono.

Mi sembra che ci sia sempre tanta e troppa ipocrisia. A me sta anche bene che uno mi dica che preferisce lo status quo, ma voglio motivazioni che vadano oltre la Rivoluzione Islamica dell'Iran, come se fosse l'unico esito possibile e inevitabile di una protesta in Medio Oriente. (Poi anche sul tema Iran le ipocrisie son tante, leggevo proprio oggi che nell'ultimo anno, a dispetto dell'embargo, Germania ed Italia hanno aumentato di diverse decine di punti percentuali gli scambi commerciali con questo paese. E' il commercio, bellezza.)

Sono io che sono troppo ingenuo?