domenica 12 dicembre 2010

meno venti domande


Leggendo la rubrica di Nick Hornby sui consigli per la lettura, riportata da Internazionale, mi sono imbattuto in un gioco curioso, ideato dal fisico John Wheeler per spiegare il funzionamento della meccanica quantistica. Horny lo citava avendolo letto nel libro "The Conversations", un dialogo tra lo scrittore Michael Ondaatje e il montatore cinematografico Walter Murch.

Questo gioco è una variante del più conosciuto "venti domande": una persona lascia la stanza per qualche minuto, mentre gli altri presenti scelgono insieme un oggetto. Quando la persona ritorna, avrà venti domande a disposizione per indovinare l'oggetto. Nella versione di Wheeler, invece, le persone che rimangono nella stanza scelgono un oggetto privatamente, ognuno il suo, senza dirlo agli altri. Quando il gioco delle "meno venti domande" comincia con la prima domanda, la risposta che verrà data influenzerà non solo la persona che deve indovinare l'oggetto, ma anche tutti gli altri, che dovranno scegliere un'altro oggetto se quello prescelto in precedenza non soddisfa la risposta data da un loro compagno in precedenza.

Il bello di questo gioco è che nessuno sa cosa gli altri stiano pensando, ma nonostante questo il gioco procede comunque e spesso, anche se non sempre, si arriva all'individuazione di un oggetto che soddisfa la scelta fatta da tutti. Quello che però mi ha affascinato è come Murch lo prenda ad esempio per spiegare come funzioni la creazione di un film. Citando dal blog di Philip Graham, dove ho trovato la spiegazione del gioco: "Il casting influenzerà come il costumista vestirà il protagonista, cosa che a sua volta influenzerà il design del set da parte del direttore artistico, influenzando a sua volta..." Nonostante tutte queste variazioni rispetto ad un'idea iniziale, in film prenderà comunque forma.

Simile potrebbe essere anche la stesura di un libro, come sottolinea Graham: non si parte dalla prima riga della prima pagina arrivando alla fine in maniera lineare. Spesso quello che era l'inizio si sposta più in là nel libro, a metà o magari verso la fine. Si interrompe la stesura di un capitolo per passare a lavorare su un altro grazie alle idee e alle influenze di quello che si è scritto finora, per poi tornare al capitolo incompleto e procedere in una maniera che all'inizio non si era prevista.

Ho trovato la trascrizione presa dal libro di Ondaatje, eccola qui sotto, in lingua originale.


(from The Conversations: Walter Murch and the Art of Editing Film)

Murch: There’s a great game–I forget whether we’ve talked about it–Negative Twenty Questions?

Ondaatje: No, we haven’t talked about it.

Murch: It was invented by John Wheeler, a quantum physicist who was a young graduate student of Niels Bohr’s in the 1930s. Wheeler is the man who invented the term “black hole”. He’s an extremely articulate proponent of the best of twentieth-century physics. Still alive, and I believe still teaching, writing.

Anyway, he thought up a parlour game that reflects the way the world is constructed at a quantum level. It involves, say, four people: Michael, Anthony, Walter, and Aggie. From the point of view of one of those people, Michael, the game that’s being played is the normal Twenty Questions–Ordinary Twenty Questions, I guess you’d call it. So Michael leaves the room, under the illusion that the other three players are going to look around and collectively decide on the chosen object to be guessed by him–say, the alarm clock. Michael expects that when they’ve made their decision they will ask him to come back in and try to guess the object in fewer than twenty questions. Under normal circumstances, the game is a mixture of perspicacity and luck: No, it’s not bigger than a breadbox. No,you can’t eat it….Those kinds of things.

But in Wheeler’s version of the game, when Michael leaves the room, the three remaining players don’t communicate with one another at all. Instead, each of them silently decides on an object. Then they call Michael back in.So, there’s a disparity between what Michael believes and what the underlying truth is: Nobodyknows what anyone else is thinking. The game proceeds regardless, which is where the fun comes in.

Michael asks Walter: Is the object bigger than a breadbox? Walter–who has picked the alarm clock–says, No. Now, Anthony has chosen the sofa, which is bigger than abreadbox. And since Michael is going to ask him the next question, Anthony must quickly look around the room and come up with something else–a coffee cup!–which is smaller than a breadbox. So when Michael asks Anthony, If I emptied out my pockets could I put their contents in this object? Anthony says, Yes. Now Aggie’s choice may have been the small pumpkin carved for Halloween, which could also contain Michael’s keys and coins, so when Michael says, Is it edible? Aggie says, Yes. That’s a problem for Walter andAnthony, who have chosen inedible objects: they now have to change their selection to something edible, hollow, and smaller than a breadbox.

So a complex vortex of decision making is set up, a logical but unpredictable chain of ifs andthens. To end successfully, the game must produce, in fewer than twenty questions, an object that satisfies all of the logical requirements: smaller than a breadbox, edible, hollow, et cetera. Two things can happen: Success–this vortex can give birth to an answer that will seem to be inevitable in retrospect: Of course! It’s the —-! And the game ends with Michael still believing he has just played Ordinary Twenty Questions. In fact, no one chose the —- to start with, and Anthony, Walter, and Aggie have been sweating it out, doing these hidden mental gymnastics, always one step ahead of failure. Which is the other possible result: Failure–the game can break down catastrophically. By question 15, let’s say, the questions asked have generated logical requirements so complex that nothing in the room can satisfy them. And when Michael asks Anthony the sixteenth question, Anthony breaks down and has to confess that he doesn’t know, and Michael is finally let in on the secret: The game was Negative Twenty Questions all along. Wheeler suggests that the nature of perception and reality, at the quantum level, and perhaps above, is somehow similar to this game.

When I read about this, it reminded me acutely of filmmaking. There is an agreed-upon game, which is the screenplay, but in the process of making the film, there are so many variables that everyone has a slightly different interpretation of the screenplay. The cameraman develops an opinion, then is told that Clark Gable has been cast in that part. He thinks, Gable? Huh, I didn’t think it would be Gable. If it’s Gable, I’m going to have to replan. Then the art director does something to the set, and the actor says, This is my apartment? All right, if this is my apartment, then I’m a slightly different person from who I thought I was: I will change my performance. The camera operator following him thinks, Why is he doing that? Oh, it’s because… All right, I’ll have to widen out because he’s doing these unpredictable things. And then the editor does something unexpected with those images and this gives the director an idea about the script, so he changes a line. And so the costumer sees that and decides the actor can’t wear dungarees. And so it goes, with everyone continuously modifying their preconceptions. A film can succeed in the end, spiralling in on itself to a final result that looks as if it has been predicted long in advance in every detail. But in fact it grew out of a mad scramble as everyone involved took advantage of all the various decisions everyone else had been making.

martedì 7 dicembre 2010

बुद्ध

Nuovo arrivo in casa Baroni-Togni, uno splendido Buddha regalatomi da Sergio per il mio trentesimo compleanno! Ecco subito una foto fresca di scatto:


Questo Buddha è stato acquistato recentemente da Sergio durante una vacanza a Bali fatta con il padre. Nella lettera che lo accompagna si fa riferimento "alla strada che porta verso il vulcano Batur", quindi da qualche parte qui nei dintorni. Un'altra informazione interessante contenuta nella lettera è la seguente: "la tradizione vuole che le statue del Buddha non possano essere acquistate per se stessi. Le si può ricevere solo in regalo..." Al di là dei significati religiosi legati al Buddha, mi piace quest'idea che implica il donare come qualcosa di più importante del semplice possesso personale.

Buddismo e induismo hanno un'origine comune e possiedono diversi punti in comune, ma anche alcune differenze sostanziali. Comprensibile lo stupore dei due splendidi Ganesh ricevuti in regalo da Samuele negli anni passati nel veder arrivare questo Buddha baliano! Avranno tempo per fare amicizia, intanto però il Ganeshone ha preteso il dominio sulla camera da letto e una foto separata. Per la cronaca, il Ganesh a sinistra non è in cura dimagrante, proviene (se la memoria non mi inganna) dall'Orissa e rappresenta il simbolismo sempre induista, ma più tribale, di quella regione (Sam correggimi se sbaglio).


Così il Buddha fa ora bella mostra di sé accanto alla super tv di Alessandro, che da Buddha Warrior qual'è credo che apprezzi il nuovo ospite. Che dici Ale, il mio Tai Chi migliorerà grazie all'aura della statuetta? :)

Grazie mille a Sergio per l'ottimo regalo, il Buddha mi ha già detto che ti attende in pellegrinaggio in via Tremana per una visita!

ps: il nome del post è "Buddha" scritto in sanscrito.

sabato 4 dicembre 2010

quello che conta

Si, il blog è un po' cambiato, nell'estetica, nel nome... Ma è solo contorno, giusto così, per rinfrescare un po' il sito. E così l'aspetto del blog credo sia anche più carino.

Vorrei riportarvi due citazioni che ho letto in questi giorni, da fonti diverse, che mi hanno colpito e mi sono rimaste. Apparentemente non c'entrano nulla l'una con l'altra, si passa dall'esperienza traumatica di una situazione di guerra in Afghanistan alle riflessioni di uno storico sulle sue gite in Svizzera con la famiglia, durante la sua infanzia. Però forse questi pensieri non sono così distanti, anzi forse parlano esattamente della stessa cosa. Di come osserviamo la vita nel momento in cui siamo più vicini alla morte, che sia per questioni drammatiche come la guerra del primo esempio, oppure alla fine di una lotta contro la malattia nel secondo. Della ricerca dell'essenziale, degli affetti più cari, dei ricordi più sereni di quello che si è vissuto. Ma spazio alle parole.

"Gli uomini fanno le guerre per il profitto o per un ideale, ma le combattono per il territorio e le donne. Presto o tardi le nobili cause affogano nel sangue e perdono di significato. Presto o tardi morte e sopravvivenza ottundono i sensi. Presto o tardi l'unica logica che resta è quella della sopravvivenza, e l'unica prospettiva la morte. Poi, quando i migliori amici muoiono urlando, e anche gli uomini migliori, folli di dolore e rabbia, perdono la ragione in un abisso insanguinato, quando tutta la giustizia, la bontà e la bellezza del mondo sono strappate via insieme alle gambe, alle braccia e alle teste di fratelli, figli e padri, allora ciò che continua a spingere gli uomini a combattere e a morire è la volontà di proteggere le donne e la terra.
Capisci che è così quando senti parlare gli uomini nelle ore che precedono la battaglia. Parlano delle loro case e delle donne che amano. Capisci che è così quando li guardi morire. Se un soldato in punto di morte è sdraiato al suolo, cerca di affondare le mani nella terra, di afferrarla. Se può, solleva la testa e guarda la montagna, la valle o la pianura. Se è lontano dalla sua terra pensa alla sua casa, e parla del suo villaggio, o della terra in cui è cresciuto. E alla fine un soldato non inveirà contro chi o cosa l'ha ridotto in quelle condizioni, ma sussurrerà il nome della figlia, della sorella, della moglie, della madre, persino mentre invoca il nome del suo Dio. La fine è come l'inizio. Alla fine restano soltanto una donna, e una città."

dal libro "Shantaram", di Gregory David Roberts

"C'è una specie di sentiero che corre lungo la ferrovia tascabile di Muerren. A mezza strada, un piccolo caffè - l'unica fermata sulla linea - serve il classico cestino da viaggio svizzero. Più avanti, la montagna cade a picco nella valle tettonica. Dietro al caffè, potete arrampicarvi fino ai pascoli estivi, con le mucche e i pastori. Oppure potete semplicemente aspettare il prossimo treno: preciso, prevedibile e puntuale al secondo. Lì non succede mai niente: è il luogo più felice del mondo.
Non possiamo scegliere dove cominciare la nostra vita, ma dove finirla sì. Io so dove sarò: in viaggio su quel trenino, senza una destinazione particolare, per sempre."

dalla nota autobiografica "Amo la Svizzera", di Tony Judt (1948-2010)
[Internazionale n°874]